Pinocchio, il teatro dei burattini

Pinocchio, il teatro dei burattini

I Raccontastorie – Fascicolo 12

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      06 - Pinocchio
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E così Pinocchio, col suo nuovo abbecedario sotto il braccio, si diresse verso la scuola; strada facendo, fantasticava: «Oggi a scuola imparerò a leggere, domani a scrivere e doman l’altro a far di conto; poi guadagnerò molti quattrini e comprerò una nuova casacca al babbo.» Intanto, in lontananza, si sentiva una musica di pifferi e una grancassa. Pinocchio sospirò: «Peccato che debba andare a scuola… però forse potrei… Ma sì: oggi andrò a sentire i pifferi e domani andrò a scuola!» Detto fatto, infilò una strada traversa e via a gambe levate. Il suono, intanto, si avvicinava sempre più. Quand’ecco che si trovò in una piazza piena di gente: nel bel mezzo spiccava un baraccone con un teatro di burattini. «È incominciata da molto la commedia?» chiese Pinocchio a un ragazzetto del paese.

«Comincia ora.» «E quanto si spende per entrare?» «Quattro soldi.» «Per quattro soldi ti vendo la mia giacchetta» disse Pinocchio senza vergogna. «Che vuoi che ci faccia con una giacchetta di carta fiorita?»
«Vuoi comprare le mie scarpe?» «Sono buone per accendere il fuoco.» «Quanto mi dai per il berretto?» «Bell’acquisto davvero! Un berretto di mollica di pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a mangiare in capo!» Pinocchio non ne poteva più. Era lì lì per fare un’ultima, disperata offerta ma non ne aveva il coraggio; esitava.. sapeva che stava per farla grossa: «Vuoi darmi quattro soldi per questo abbecedario nuovo?» «Lo prendo io!» gridò un rivenditore di panni usati, che si trovava nei pressi.
E così il libro, che era costato un gran sacrificio al povero Geppetto, fu venduto lì su due piedi. Intanto, nel teatrino dei burattini, la commedia era già incominciata; Arlecchino e Pulcinella, al solito, bisticciavano dandosele di santa ragione. A un tratto Arlecchino gridò: «Numi del firmamento, ma quello laggiù ,è Pinocchio!» «E Pinocchio davvero! Pinocchio! Pinocchio! Pinocchio!» Pinocchio ricevette così una calda accoglienza dai suoi fratelli di legno, ma sul più bello dei festeggiamenti uscì fuori il burattinaio. Era un omone con una lunga barbaccia nera come l’inchiostro, tanto lunga che ogni tanto c’inciampava; aveva una bocca larga come un forno, due occhi simili a due lanterne rosse e teneva in mano una frusta fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate.

«Perché sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro, eh?» tuonò il burattinaio. «Ma, io… io… non volevo, illustrissimo, io…» «Basta così: dopo faremo i conti!» Finita la recita, infatti, chiamò Arlecchino e Pulcinella: «Portatemi quel burattino: voglio farne una bella fiammata per il mio arrosto!» «Aiuto, aiuto! Non voglio morire! Non voglio morire!» Il burattinaio Mangiafuoco (poiché questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, ma sotto sotto, non era poi tanto cattivo. Vedendo Pinocchio urlare e dibattersi, si commosse ed emise un sonorissimo starnuto: «Etcì!» «Buone nuove, fratello», disse Arlecchino a Pinocchio, «se ha starnutito, è segno che s’è mosso a compassione per te.»
«Felicità!» disse Pinocchio. «Etcì! Etcì!» «Felicità!» «Grazie. Be’, pazienza», disse Mangiafuoco, «ormai mi sono impietosito; purtroppo però non ho più legna per arrostire il mio montone. Invece di te, metterò a bruciare qualche burattino della mia compagnia… Olà gendarmi!» A questo comando, comparvero due gendarmi di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, colla sciabola in mano. «Pigliatemi Arlecchino e gettatelo nel fuoco.» Figuratevi il povero Arlecchino! Per lo spavento gli si piegarono le gambe e cadde lungo disteso. A quella vista, Pinocchio si buttò ai piedi del burattinaio e piangendo a dirotto bagnò di lacrime la sua lunghissima barba.

«Pietà, signor Mangiafuoco!…» «Qui non ci son signori!» «Pietà, signor cavaliere!» «Qui non ci son cavalieri!» «Pietà, eccellenza!» A sentirsi chiamare eccellenza, Mangiafuoco si rabbonì e borbottò: «Ebbene, cosa vuoi da me?» «Vi domando grazia per il povero Arlecchino!» «Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, tocca per forza a lui: il mio montone deve essere ben arrostito.» «In questo caso, signori gendarmi, gettate me tra le fiamme. Non è giusto che il mio povero amico debba morire per me!» Queste parole fecero piangere tutti i burattini; perfino i gendarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini. Mangiafuoco, lì per lì, rimase impassibile, ma poi incominciò a commuoversi e giù starnuti; quattro, cinque volte starnutì, e infine aprì affettuosamente le braccia e disse a
Pinocchio: «Sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio!» Pinocchio si arrampicò come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio e gli stampò un bacione sulla punta del naso. «Allora la grazia è accordata?» chiese Arlecchino con un fil di voce.

«La grazia è accordata!» Mangiafuoco sospirò e tentennò il capo. «Pazienza! Per questa sera mi toccherà mangiare il montone mezzo crudo!» Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e saltarono e ballarono fino all’alba. Il giorno dopo Mangiafuoco chiese a Pinocchio: «Che mestiere fa il tuo babbo?» «Il povero.» «E guadagna molto?» «Tanto da non aver mai un soldo in tasca.» «Ecco qui cinque monete d’oro: portagliele e salutalo da parte mia.» Pinocchio ringraziò
mille volte il burattinaio e si avviò verso casa. Non aveva fatto ancora mezzo chilometro che incontrò una volpe zoppa a un piede e un gatto cieco da tutt’e due gli occhi. «Buongiorno, Pinocchio», gli disse la Volpe salutandolo garbatamente. «Com’è che sai il mio nome?» «Conosco il tuo babbo: l’ho visto ieri sulla porta di casa che tremava dal freddo.» «Oh, povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!…» «Perché?» chiese la Volpe. «Perché?» ripeté il Gatto. «Perché son diventato un gran signore!» E mostrò loro le cinque monete d’oro.

Al suono delle monete, la Volpe allungò la zampa che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò solo per un attimo i suoi occhi verdi. «Voglio comprare al mio babbo una casacca nuova e un abbecedario per me, perché voglio andare a scuola e studiare.» «Guarda me!» disse la Volpe. «A furia di studiare ho perduto una zampa.» «Guarda me!» disse il Gatto. «A,, furia di studiare ho perso la vista.» «Pinocchio» disse un merlo bianca-di sopra una siepe, «non dar retta ai consigli dei cattivi compagni. Se no te ne pentirai!» Non l’avesse mai detto! Il Gatto spiccò un balzo e rapido come un lampo se lo pappò in un boccone, con le penne e tutto. Poi, ripulitosi la bocca, ricominciò a fare il cieco come prim Pinocchio rimase sbalordito, ma non ebbe nemmeno il tempo di pensare al povero merlo, che la Volpe gli chiese: «Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro? Farle diventare cento, mille, milioni?» «… mille, milioniii?» ripeté il Gatto.
«Magari!» disse Pinocchio. «Allora vieni con noi nel Paese dei Barbagianni: diventerai ricco!» «… diventerai ricc000!» «No, è meglio di no. Ne ho passate di tutti i colori, a fare il cattivo. Voglio tornare a casa.» «Allora vai, e tanto peggio per te!» «… tanto peggio per tee!» «Che peccato! Rinunciare così a duemila zecchini!» «… duemila zecchini!» «Duemila? Com’è possibile? Jr Pinocchio era a bocca aperta. «È semplice, basta sotterrare gli zecchini d’oro nel “Campo dei Miracoli” e innaffiarli con acqua e sale: il mattino dopo diventeranno 500, poi 5000 e così via!» «… 5000 e così viaaa!» «Che bellezza!» gridò Pinocchio, dimenticando tutti i suoi buoni propositi. «Allora, vengo con voi!»
(Cosa troverà Pinocchio nel Campo dei Miracoli? Lo saprai leggendo il n. 13).