Pinocchio, il paese dei balocchi

Pinocchio, il paese dei balocchi

I Raccontastorie – Fascicolo 16

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      06 - Pinocchio 6^parte
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Vai pure ad invitare i tuoi compagni per la festa di domani», disse la fata, «ma ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?» «Fra un’ora prometto che tornerò!» Il burattino salutò la sua buona fata, e cantando e ballando uscì dalla porta di casa. In meno di un’ora quasi tutti i suoi amici furono invitati: mancava Lucignolo, il ragazzo più svogliato e birba di tutta la scuola. Stentò a trovarlo perché non era in casa; alla fine lo scovò per caso. «Cosa fai qui?» chiese Pinocchio avvicinandosi. «Parto a mezzanotte e vado lontano, lontano.» «Ah,… e io che volevo invitarti alla mia festa. Sai? Domani diventerò un ragazzo come te e come tutti gli altri.» «Buon pro ti faccia.»

«Ma… non capisco: tu dove vai?» «Nel più bel paese del mondo: una vera cuccagna! Si chiama il “Paese dei balocchi”. Perché non vieni anche tu?» Io? No davvero!» «Hai torto e te ne pentirai. In quel paese non esistono scuole, non esistono libri, non esistono maestri. Non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola e lì la settimana è composta di sei giovedì e una domenica. Le vacanze iniziano a gennaio e finiscono a dicembre!» «Dev’essere proprio un bel paese!» sospirò Pinocchio, «ma non posso proprio venire, ho promesso di diventare un ragazzo di giudizio e non voglio mancare alla parola.» Finalmente arrivò un carro condotto da un ornino più largo che lungo, trainato da ventiquattro ciuchini; che stranamente, invece di essere ferrati, calzavano stivaletti bianchi. Lucignolo saltò lesto sul carro. «Vuoi venire anche tu?» chiese l’ornino con voce carezzevole. «No, non mi tentate, vi prego!» «Vieni con noi e staremo allegri! gridò Lucignolo.

«Vieni con noi e staremo allegri!» gridarono gli altri ragazzi che erano sul carro. Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che Pinocchio si lasciò convincere per l’ennesima volta a desistere dai buoni propositi. Non c’era più posto -nel carro e il burattino fece per montare su uno dei ciuchini,, ma la bestiola lo mandò subito a gambe all’aria. I ragazzi risero sgangheratamente, ma l’ornino non rise. Si accostò al ciuchino ribelle e, facendo finta di dargli un bacio, „gli staccò un orecchio con un morso. «Monta pure in groppa: gli ho detto due paroline nell’orecchio e credo di averlo persuaso.» «Ma il ciuchino piange.» «Suvvia, non perdiamo tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo e andiamo: la nottata è fresca e la strada è lunga.»

Il carro riprese così la sua corsa: e la mattina, sul far dell’alba, arrivarono felicemente al Paese dei balocchi. Questo paese non somigliava a nessun paese al mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano quattordici anni, i più giovani appena otto. Nelle strade c’era un’allegria e un chiasso da levar il cervello. Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi che erano sul carro, si gettarono in quella baraonda. In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, í giorni e le settimane passarono come tanti baleni.

«Oh, che bella vita!» diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo. «E pensare che volevi tornare dalla tua fata per perdere il tempo a studiare!» Eran oramai cinque mesi che durava questa cuccagna, quando una mattina Pinocchio ebbe una gran brutta sorpresa. Svegliandosi, gli venne naturale grattarsi il capo, e nel grattarsi il capo s’accorse… Indovinate un po’ di che cosa si accorse? Si accorse che gli orecchi gli eran cresciuti più d’un palmo; specchiandosi, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide la sua immagine abbellita di un magnifico paio d’orecchi d’asino.

Lascio pensare a voi il dolore, a vergogna e la disperazione del povero Pinocchio. Prese a piangere, a strillare, a batter la testa contro il muro; ma più si disperava, più i suoi orecchi crescevano. «Amico mio, tu hai una gran brutta febbre!» disse una marmottina che passava di lì. «E che febbre sarebbe?» «È la febbre del somaro.» «Non la capisco, questa febbre», rispose il burattino che invece l’aveva purtroppo capita.

«Sappi che tra due o tre ore diventerai un ciuchino come tutti gli altri.» «Oh, povero me, __ povero me!» «Che cosa ci vuoi fare? Succede così ai ragazzi che pensano solo a giocare e a divertirsi.» Per la vergogna di farsi

vedere in pubblico Pinocchio si mise in capo un gran berretto di cotone. Guarda caso, in quel momento capitò Lucignolo con un berrettone che gli scendeva fin sotto il naso. Entrambi diedero la loro spiegazione per quegli strani copricapo. «Me l’ha ordinato il medico, perché mi son fatto male a un ginocchio.» «Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono sbucciato un piede.» I due presero poi a sbirciarsi con sospetto e con malizia. Naturalmente nessuno voleva togliersi il berretto per primo: così decisero di 11› levarselo contemporaneamente. «Uno! Due! Tre!» E allora avvenne una cosa incredibile: invece di disperarsi e di restar mortificati i due finirono per scoppiare in una bella risata. A un tratto Lucignolo si fece bianco come un cencio: «Aiuto,  Pinocchio, non mi riesce più di star ritto sulle gambe!» E piangendo e barcollando, Pinocchio gridò di rimando: «Nemmeno a me!» A poco a poco le braccia

diventarono zampe, i visi diventarono musi… e quando vollero piangere e lamentarsi, mandarono fuori un coro di ragli. «Ihah, ihah, ihah!» «Bravi ragazzi! Avete ragliato bene!» disse una voce. Era l’ornino del carro! Dopo averli strigliati ben bene e aver loro messa la cavezza, li condusse alla piazza del mercato per venderli. Era così infatti che l’ornino faceva affari d’oro: sfruttando l’ingenuità dei ragazzi perdigiorno, buoni solo a divertirsi. Lucignolo venne comprato da un contadino, mentre Pinocchio dal direttore di un circo che voleva ammaestrarlo per farlo ballare e saltare insieme con le altre bestie della compagnia.

Il povero Pinocchio, per amore o per forza, dovette rassegnarsi a essere trattato come un ciuco: a fieno e a vergate, a saltare i cerchi e a ballare il valzer e la polca. Per diventare un ciuco provetto in queste specialità, gli ci vollero tre mesi di lezioni e molte frustate. Venne finalmente il giorno del grande spettacolo.

 

Nella serata di gala il circo era pieno stipato: non si trovava un posto nemmeno a pagarlo a peso d’oro. “Il famoso ciuchino Pinocchio, la stella della danza”, come dicevano i cartelloni del circo, si fece molto onore e venne più volte applaudito. Alla fine dell’esibizione, proprio mentre urla e battimani andavano alle stelle, gli capitò di guardare verso il pubblico: con sua grande sorpresa e gioia scorse la fata. «Oh fatina mia, oh fatina mia!» Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio prolungato che fece ridere gli spettatori e gli procurò una bacchettata sul naso. Ma quale fu la sua disperazione quando, voltandosi una seconda volta, vide che la fata era sparita. Pinocchio rimase talmente avvilito che non fu più capace di compiere un esercizio; anzi, durante un salto, cadde malamente e si azzoppò. Il mattino dopo, il direttore del circo

disse al suo garzone di stalla: «Un somaro zoppo è un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo.» Pinocchio venne comprato per venti soldi da un tale che disse: «Mi serve la pelle di questo ciuco: è bella dura, voglio farne un bel tamburo per la banda del mio paese.» Figuratevi come fu contento Pinocchio all’idea di diventare un tamburo! Fatto sta che il compratore condusse il ciuchino in riva al mare, gli legò una fune a una zampa e lo gettò

nell’acqua con un sasso al collo. Poi si sedette, dandogli tutto il tempo di morire affogato. Dopo mezz’ora, il compratore ritirò la fune e con sua gran sorpresa, al posto d’un ciuco morto, vide apparire un burattino vivo che scodinzolava come un’anguilla. «Oibò! E il ciuchino dov’è finito?» «Sono io» rispose il burattino ridendo. «Ah, mariolo! Vuoi burlarti di me? E come saresti diventato un burattino di legno?» «Sarà effetto dell’acqua di mare,» «Sì, scherza, scherza… e la mia pelle da tamburo? Rivoglio i miei soldi! Sai cosa farò? Ti rivenderò al mercato come legno stagionato.»

Non fece in tempo a dir così, che Pinocchio schizzò in acqua. «Addio!» gridò all’uomo ridendo. «Se avete bisogno di una pelle da tamburo, ricordatevi di me!» Il compratore rimase sulla riva a gesticolare imbestialito, mentre Pinocchio nuotava e rideva, rideva e nuotava, tanto che in un batter d’occhio non si vedeva quasi più. (Riuscirà Pinocchio a diventare un ragazzo? Scoprilo sul prossimo numero)

 

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